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RIASSETTO SISTEMA TELEVISIVO: AUDIZIONE FIEG

AUDIZIONE VII COMMISSIONE (CULTURA, SCIENZE E ISTRUZIONE) E IX (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI CAMERA DEI DEPUTATI ROMA, 8 GENNAIO 2004 Sintesi delle osservazioni Fieg in merito al riassetto del sistema radiotelevisivo La nuova disciplina del sistema radiotelevisivo è stata concepita come “legge di sistema”, mirante, cioè, non solo a disciplinare il settore radiotelevisivo, ma ad assicurare un equilibrio nel complessivo sistema della comunicazione, evitando il predominio di alcuni mezzi o di alcuni soggetti sugli altri. Tale approccio ha trovato piena approvazione da parte della Federazione Editori Giornali in quanto esattamente rispondente all’esigenza di cogliere le interdipendenze tra la disciplina di un segmento e la situazione dell’intero sistema, nonché alla necessità di tutelare ed accrescere il livello di pluralismo. Le critiche degli editori al testo approvato dal Parlamento non nascono, pertanto, dalla logica di sistema della disciplina che esso contiene, ma esattamente dal suo opposto: dalla polarizzazione della nuova disciplina verso le esigenze della televisione e dalla scarsa considerazione che essa riserva alle conseguenze che ne derivano a carico degli altri settori. Alla luce del messaggio del Presidente della Repubblica, che ha puntualmente ed analiticamente indicato i punti di contrasto tra il testo approvato e le esigenze complessive, ci sforzeremo di ribadire il punto di vista degli editori di giornali e di indicare le modifiche, a nostro avviso, necessarie per assicurare l’equilibrio nel settore complessivo della comunicazione. I - NORME ANTITRUST NEL SETTORE INTEGRATO DELLA COMUNICAZIONE. Sembra opportuno citare, in materia di normativa antitrust nel settore televisivo, la disciplina adottata in alcuni Paesi europei (Francia, Germania, Regno Unito, Olanda) e negli USA. Tali discipline, il cui contenuto è riportato in allegato (all. 1), sono tutte più severe e stringenti di quella adottata nel testo in esame. Tutti i Paesi citati hanno compreso che il mezzo televisivo, in assenza di opportuni limiti, potrebbe mettere a rischio la convivenza tra i diversi mezzi e creare una eccessiva concentrazione del potere di comunicazione in poche mani. Il fatto che tali limiti siano generalmente più severi e più articolati di quelli stabiliti per gli altri media testimonia la consapevolezza, in tali Paesi, del maggior rischio che la televisione, per le sue particolari caratteristiche, può comportare per il mantenimento di un soddisfacente livello di pluralismo dei media e delle voci. La situazione di concentrazione esistente in Italia nel settore televisivo, sia sul piano della titolarità delle reti, sia sul piano dell’assorbimento delle risorse, sia sul piano dello share di audience non ha riscontro in nessuno dei Paesi citati e ciò proprio per effetto della mancanza nel nostro Paese di una disciplina analoga a quelle adottate dagli altri. E’ probabile che questi problemi possano essere attenuati, o addirittura eliminati, dall’avvento della televisione digitale terrestre, che, a parità di frequenze utilizzate, consente di moltiplicare i programmi trasmissibili. A questo proposito dobbiamo sottolineare come gli editori di giornali non abbiano mai tentato di ostacolare l’introduzione e l’applicazione di tale tecnologia, per difendere – come è stato sostenuto – il mercato della carta stampata in una logica corporativa e conservatrice. Quello che abbiamo detto e che ribadiamo è che non può utilizzarsi uno sviluppo futuro per giustificare nel presente l’ulteriore attenuazione di limiti che – come si è visto – sono già oggi in Italia meno severi che negli altri Paesi. Gli editori italiani – che non rappresentano un settore obsoleto, né ostacolano il progresso tecnologico – sono favorevoli all’introduzione del digitale, parteciperanno alla sua sperimentazione, cercheranno di utilizzare il loro know-how per proporsi ed affermarsi come fornitori di contenuti. Quello a cui si oppongono è che su un’ ipotesi, a dir poco, ottimistica – l’ immediata e consistente offerta di nuovi programmi, l’immediato ingresso di nuovi operatori, l’immediata diffusione presso il pubblico del nuovo sistema, lo spostamento nel breve periodo sui nuovi programmi di consistenti fasce di audience – si costruisca una disciplina che, fin quando quelle condizioni non si siano realizzate, avrà l’effetto di favorire ulteriormente la concentrazione in luogo di ostacolarla. Il cambiamento del panorama televisivo conseguente alla “rivoluzione digitale” dovrebbe essere utilizzato come condizione, al verificarsi della quale, si modificherà la disciplina, piuttosto che come previsione, in attesa della quale, si cambia la disciplina. La prima soluzione è in fondo quella adottata dal decreto-legge approvato il 23 dicembre che prevede, appunto, una verifica della situazione di fatto ad una certa data stabilendo a priori le conseguenze giuridiche derivanti dall’esito della verifica. Quando il digitale avrà effettivamente modificato la dimensione e la composizione dell’offerta televisiva sarà non solo lecito, ma doveroso prenderne atto – ma solo allora – attraverso una modifica della disciplina, o attraverso l’applicazione di una nuova disciplina stabilita fin da ora. Per quanto riguarda i limiti antitrust, la normativa approvata utilizza quale mercato di riferimento il cosiddetto Sistema Integrato della Comunicazione, sulla cui vastità, eterogeneità, indeterminabilità sono già stati espresse tante e tanto autorevoli critiche da rendere superfluo ogni ulteriore giudizio. Merita piuttosto di essere esaminato un argomento che è stato spesso utilizzato a sostegno della configurazione del SIC: quello che la diversificazione dell’offerta attuata negli ultimi tempi proprio dagli editori di giornali dimostrerebbe la fondatezza della composizione del SIC contenuta nel testo approvato. In proposito occorre rilevare come l’integrazione orizzontale costituisca un fenomeno tipico delle moderne economie, ma che tale integrazione non crea di per sé nuovi mercati di riferimento utilizzabili per discipline giuridiche antimonopolistiche. Se gli industriali dell’automobile entrano – come di fatto sono entrati – in settori contigui come quelli della componentistica, della fabbricazione di veicoli industriali, di autobus o di aerei ciò non ha creato certo l’insorgere di un mercato unico dei pezzi di ricambio, delle automobili, dei camions, degli autobus o degli aerei. Che le imprese editoriali, per meglio resistere alle oscillazioni congiunturali, abbiano diversificato la loro offerta – sfruttando le potenzialità della particolare rete di vendita dei loro prodotti – non significa che si sia creato un nuovo mercato nel quale competono cinema, libri, giornali, dischi, cassette. Il denominatore comune dei prodotti e servizi di un mercato che vuole definirsi integrato deve essere il rapporto di fungibilità che intercorre tra gli stessi e che, invece non esiste tra quelli inseriti nel SIC, se non nel senso latissimo di occupare il tempo dei loro acquirenti. Se questo fosse il criterio di individuazione dei prodotti e servizi da inserire nel mercato di riferimento, allora anche il SIC risulterebbe sottodimensionato in quanto, ad esempio, non comprende l’attività teatrale, quella dell’organizzazione di eventi sportivi, quella dello svago e del tempo libero. Attività che competono tutte reciprocamente e con l’attività radiotelevisiva ed editoriale nel conquistare quote di quel “time sharing” che costituisce il parametro finale di tutte le attività umane, ma che non può certo essere utilizzato come punto di riferimento per interventi sul mercato. La definizione realistica di un mercato di riferimento per interventi di regolazione non può, pertanto, fondarsi che su prodotti e servizi collegati da un nesso di fungibilità e su risorse la cui acquisizione condiziona l’efficacia e la redditività dell’offerta di quei beni e di quei servizi. In base a tali parametri le risorse del mercato rilevante del settore della comunicazione devono, pertanto, essere individuate: nei ricavi connessi all’attività editoriale del settore della stampa quotidiana e periodica (vendite in edicola, abbonamenti, pubblicità); nei ricavi connessi all’attività editoriale realizzata via Internet; nei ricavi connessi all’attività radiotelevisiva (quota del canone trasferita alla concessionaria pubblica, ricavi pubblicitari, abbonamenti alle televisioni a pagamento). Merita di essere sottolineato come nel testo approvato, oltre alla eccessiva estensione dei settori inclusi nel SIC dall’art. 2, comma 1, lettera g), si rileva un’altra incongruenza: il fatto che il limite del 20% non si applichi a tutti i soggetti che concorrono a determinare l’estensione del SIC, ma solo ad alcuni tra essi. A norma, infatti, dell’art. 15, comma 3 del testo approvato, il tetto del 20% si applica solo ai soggetti obbligati all’iscrizione al Registro Operatori della Comunicazione (ROC), che rappresentano solo una parte dei soggetti previsti dall’art. 2, comma 1, lettera g). Ne deriva che, secondo quel testo, esistono attività (produzione e distribuzione di opere cinematografiche, editoria libraria, fonografia, pubblicità attraverso mezzi diversi dalla radiotelevisione e dalla stampa ) che concorrono a formare il SIC, ma i cui titolari non sono soggetti al rispetto del limite del 20%. In proposito appare necessario che tutti i soggetti le cui attività sono incluse nel perimetro del SIC siano anche sottoposti al limite di concentrazione relativo al SIC stesso. Un’altra notazione riguarda, infine, l’inserimento nell’art. 15, tra i ricavi rilevanti ai fini della soglia del 20%, degli “investimenti di enti ed imprese in altre attività finalizzate alla promozione dei propri prodotti o servizi”. A parte il fatto che non si comprende come quegli investimenti possano tramutarsi in ricavi per gli operatori della comunicazione, non si comprende neanche perché spese promozionali che non utilizzano i media assumano rilevanza nella determinazione delle soglie di concentrazione consentita agli operatori della comunicazione. II- NORME ANTITRUST NEI SINGOLI SETTORI Il testo approvato, oltre a fissare un tetto rapportato al complesso delle attività che compongono il SIC, fissa anche il divieto di costituzione di posizioni dominanti nei singoli settori che compongono il sistema integrato (art. 14 comma 2 e art. 15 comma 2). Si tratta di una norma che condividiamo pienamente in quanto un operatore, pur non superando il tetto del sistema integrato, potrebbe raggiungere posizioni di eccessivo rilievo in singoli settori, determinando in tali settori situazioni pregiudizievoli all’esplicazione di una corretta concorrenza e di un libero mercato. L’espressione “costituzione di posizioni dominanti” potrebbe, però, essere interpretata come riferita solo a situazioni che dovessero insorgere dopo l’entrata in vigore della nuova normativa, con conseguente definitiva sanatoria di situazioni precedenti, ancorché vietate. Si propone pertanto di sostituire il “divieto di costituzione di posizioni dominanti” con quello del “divieto di posizioni dominanti”. Sempre su tale argomento occorre meglio precisare i poteri di intervento attribuiti all’Autorità competente nel caso essa verifichi l’esistenza della posizione dominante nei singoli settori che compongono il SIC. III - LIMITI ALLA RACCOLTA PUBBLICITARIA La più vistosa anomalia della situazione italiana rispetto a quella degli altri Paesi europei risiede nel diverso peso che la televisione e la carta stampata hanno nell’assorbimento di quote degli investimenti pubblicitari complessivi. In Italia la stampa nel 2002 ha assorbito il 39,4% del mercato pubblicitario complessivo, contro il 57,3% nel Regno Unito, il 69,3% in Germania, il 50,6% in Francia, il 45,5% in Spagna (All. n. 2). La televisione in Italia nello stesso anno ha assorbito il 53,3% del mercato complessivo, contro il 32% nel Regno Unito, il 23% in Germania, il 29,5% in Francia, il 39,9% in Spagna. Si tratta di una situazione in progressivo deterioramento, visto che dal 1990 al 2003 la televisione italiana è passata dal 45,5% di quota di mercato al 55,4%, mentre la stampa è scesa dal 49,6% al 37,1% (All. nn. 3 e 4). Il pericolo del progressivo “inaridimento” di una fondamentale fonte di finanziamento della libera stampa, denunciato dalla Corte Costituzionale, è, pertanto, quanto mai attuale e tutt’altro che “preistorico”. L’attribuzione della responsabilità di tale eccezionale divario allo scarso numero di copie di quotidiani vendute in Italia non tiene conto degli alti indici di lettura per copia diffusa, grazie ai quali nel nostro Paese si registrano 16.697.000 lettori al giorno per i quotidiani e 33.487.000 lettori a settimana per i periodici. La maggiore lettura a copia – attribuibile a molti fattori di carattere sociale – consente alla stampa italiana di recuperare in termini di readership l’innegabile svantaggio esistente in termini di vendite. Il vero grande ed insuperabile svantaggio deriva, quindi, dalla concorrenza della televisione nazionale che, grazie ad una offerta molto vasta e a limiti di affollamento troppo permissivi e troppo permissivamente applicati, può praticare condizioni di prezzo talmente favorevoli da mettere fuori mercato non solo la carta stampata, ma anche la televisione locale. Secondo la ricerca “Global media cost comparison 2002” effettuata dal World Advertising Research Center (WARC), fatto 100 l’indice del costo contatto medio per mille adulti della televisione italiana, tale indice è 147,5 in Francia, 183,7 in Gran Bretagna, 121,2 in Germania, 216,9 negli USA, 246,4 in Giappone (All. nn. 5 e 6). Squilibri di tale dimensione avrebbero giustificato la richiesta di interventi ben più vasti di quelli che abbiamo proposto, limitandoci alle richieste minime proprio per evitare di introdurre logiche di dirigismo centralistico nel mercato pubblicitario. Le richieste da noi avanzate riguardano solo il trattamento delle cosiddette “telepromozioni”, in relazione alle quali il testo approvato opera un vero e proprio condono, legittimando – per il passato e per il futuro - un comportamento ritenuto illecito dal Consiglio di Stato e sanzionato dall’Autorità Garante: la pratica, cioè, di non computare le “telepromozioni” nel tetto dell’affollamento orario, ma solo in quello dell’affollamento giornaliero. A tale proposito, è da escludere, innanzitutto, che tale prassi costituisca la doverosa applicazione della Direttiva europea “Televisione senza frontiere”. Ciò in quanto tale Direttiva riconosce agli Stati membri la facoltà di stabilire norme più rigorose o più particolareggiate e, in alcuni casi, condizioni differenti per le emittenti televisive soggette alla loro giurisdizione. Inoltre, la Direttiva europea non contiene alcuna disposizione che si riferisce direttamente alla telepromozioni, che è pratica seguita pressoché unicamente dalle emittenti televisive italiane. Com'è noto, si tratta di quelle forme di pubblicità presentate, all’interno dei programmi televisivi, dai conduttori stessi e che non differiscono nella sostanza dagli spot pubblicitari se non per la loro maggiore integrazione con i programmi. Si è già accennato all’orientamento del Consiglio di Stato che, con pareri del 16 gennaio e del 10 luglio 2002, ha affermato che le telepromozioni debbano essere ricomprese nel limite orario complessivo del 18%, ritenendo che tale limite sia da considerarsi “come assoluto ed inderogabile a tutela dei valori del pluralismo culturale di cui all’art. 21 della Costituzione”. Il testo approvato, all’art. 15, comma 7, lettere a) e b), ha modificato le disposizioni sui limiti di affollamento pubblicitario previste dalla legge n. 223 del 6/8/1990, in modo da escludere le telepromozioni (considerate forme di pubblicità diverse dagli spot) dal tetto orario del 18% che dovrebbe essere pertanto applicabile non più a tutti i messaggi pubblicitari, ma soltanto agli spot. Ne conseguirebbe che, nell’ambito di ogni singola ora, gli spot potrebbero occupare l’intero tetto del 18% e le telepromozioni, in quanto “altre forme di pubblicità”, verrebbero ad aggiungersi senza altri limiti che quello giornaliero di scarso significato riferendosi ad una programmazione televisiva di 24 ore. Si è in presenza di un ampliamento degli spazi pubblicitari orari consentiti oggettivamente rilevante, che non trova riscontro negli altri paesi europei. In Inghilterra e in Francia le telepromozioni sono addirittura vietate. Nelle legislazioni in materia di pubblicità televisiva degli altri paesi europei non si rinvengono discipline specifiche e, pertanto, le telepromozioni rientrano nei limiti generali previsti per la pubblicità televisiva (All. n. 7). Per evitare un ulteriore drenaggio di risorse pubblicitarie e l’accentuazione della tendenza delle televisioni ad abbassare il costo unitario della pubblicità, alterando la concorrenza con gli altri media, gli editori ritengono che il tetto orario del 18% debba comprendere anche le telepromozioni, confermando la soluzione cui si è già pervenuti in via giurisprudenziale. Non si introdurrebbe in tal modo alcuna nuova limitazione a danno delle emittenti televisive commerciali rispetto alla situazione di diritto esistente, ma si renderebbe esplicito, anche a livello normativo, ciò che è già contenuto nella disciplina vigente, eliminando dubbi e contenziosi. Inoltre, sulla base del più generale principio della netta separazione della pubblicità dai programmi, si propone di vietare che “telepromozioni” possano essere presentate dagli stessi conduttori dei programmi, nei quali sono inserite.



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