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ASSEMBLEA DELLA FIEG: LA RELAZIONE DEL PRESIDENTE LUCA CORDERO DI MONTEZEMOLO
Si è tenuta in Campidoglio l'Assemblea pubblica della Fieg. Viene qui riportato il testo integrale della relazione del Presidente, Luca Cordero di Montezemolo.

Signor Presidente del Consiglio, Signori Ministri e Sottosegretari, Signori Parlamentari, Signori rappresentanti della pubblica amministrazione, Signori rappresentanti dell’economia, del mondo giornalistico e del mondo sindacale, a nome di tutti gli editori italiani e mio personale desidero ringraziarVi di aver voluto testimoniare con la Vostra autorevole presenza l’attenzione che il Paese riserva allo sviluppo dell’attività editoriale.


Un particolare ringraziamento vorrei indirizzare al Sindaco di Roma Walter Veltroni che, mettendo a disposizione della nostra assemblea una sede tanto suggestiva, ha consentito che i nostri lavori si svolgessero in una cornice di grande prestigio.


Signore e Signori,

dopo molti anni in cui la Federazione degli Editori ha tenuto le proprie assemblee in forma privata, abbiamo voluto questa assemblea pubblica perché abbiamo ritenuto opportuno confrontarci con il mondo politico, sindacale, economico e culturale del Paese sullo stato, sulle prospettive, sui problemi di un settore industriale – che tale è e tale vuole essere considerato – il cui prodotto, però, è, oggettivamente, molto rilevante per il mantenimento dei valori fondamentali di una reale democrazia.

La presenza così vasta ed autorevole di esponenti delle massime istituzioni del Paese ci conferma oggi la giustezza di questa idea, testimoniando un’ attenzione ed un interesse che superano sicuramente l’importanza economica del nostro settore e il suo peso nell’apparato produttivo del Paese ed è la conseguenza, invece e soprattutto, della rilevanza politica, sociale e culturale del nostro prodotto.

Negli ultimi anni il settore editoriale ha lavorato sodo per mettere ordine nei propri conti. Dal 1995 al 2000 il margine operativo lordo del settore dei quotidiani è aumentato di dieci volte e l’utile operativo (ricavi meno costi e ammortamenti) è passato da un deficit di 143 miliardi ad un risultato positivo di 405 miliardi. Nel 2000 l’utile al netto delle tasse è stato di 578 miliardi, con un rapporto sul fatturato in linea con quanto rilevato da Mediobanca per le principali imprese italiane.

Anche nel settore dei periodici il processo di risanamento è stato vigoroso. Non disponiamo di dati altrettanto analitici come per i quotidiani, ma possiamo dire che il quinquennio 1995-2000 è stato per le più significative imprese editrici di periodici un periodo di decisa crescita nella redditività delle imprese e nella produttività.

Essere giunti a questi risultati ha – consentitemi l’enfasi – del prodigioso, se si guarda ai punti di partenza. Appena venti anni fa era difficile definire industriale il settore editoriale in generale e quello dei quotidiani in particolare. Un settore – a quell’epoca – bloccato dal veto sindacale all’utilizzo delle nuove tecnologie, obbligato ad acquistare materie prime da un monopolio italiano protetto dal Governo, che praticava prezzi più alti di quelli europei, e privato addirittura anche del diritto di fissare il prezzo di vendita dei suoi prodotti perché lo Stato aveva deciso di provvedervi; e con quanta sollecitudine lo facesse si può facilmente dedurre dal fatto che il prezzo rimase bloccato per ben tre anni, dal ’74 al ’77, mentre l’inflazione galoppava a due cifre. Essere arrivati, partendo da quella situazione, alle cifre che ho prima ricordato è un risultato di considerevole rilievo.

E lo è sia dal punto di vista della logica di impresa e di mercato, sia dal punto di vista della logica politica e sociale. Aver ripristinato l’utile nell’attività editoriale ha anche significato, infatti, eliminare quella sorta di monopolio di fatto che rendeva l’attività stessa appannaggio esclusivo di chi poteva permettersi di pagarne il passivo. I bilanci in utile sono la migliore garanzia di giornali indipendenti: mantenerli in utile è il primo obiettivo di chi, come la Federazione che ho l’onore di presiedere, si prefigge, innanzitutto, di difendere la libertà dei giornali e la loro indipendenza da ogni condizionamento esterno.

Oggi abbiamo l’orgoglio di poter dire che l’industria dell’informazione può essere finalmente gestita nel rispetto della logica dell’impresa e della prima delle sue regole, quella cioè che ogni attività economica non deve perdere.

A questo risultato siamo arrivati solo grazie a grandi sforzi, ad una profonda innovazione nei processi e nei prodotti, ad un grande impegno di tutte le componenti del settore e potendo contare, almeno negli anni più duri, su un sostegno pubblico che è stato essenziale e che siamo stati i primi a non volere più quando la stampa ha potuto camminare con le sue sole gambe. Naturalmente questo processo non è stato indolore: testate sono scomparse, editori sono falliti, nel settore degli operai si è registrata una grande flessione dell’occupazione, alla quale ha fatto peraltro riscontro la crescita costante della popolazione giornalistica. Il che testimonia, da un lato, la crescita di produttività del sistema e, dall’altro, l’attenzione degli editori per la qualità dei prodotti, alla quale, appunto, sono preposti i giornalisti.

Se sul piano della gestione economica la crescita è stata molto positiva, non altrettanto può dirsi sul piano della diffusione dei quotidiani che, pur avendo invertito negli ultimi quattro anni l’andamento dei quattro anni precedenti, è ancora lontana dal livello massimo toccato nel 1990 di quasi 7 milioni di copie vendute al giorno.

Ma su questi dati occorre fare qualche precisazione: l’enorme divario che divide - nel settore della diffusione dei quotidiani – il nostro Paese dall’Inghilterra o dalla Germania è fortemente influenzato dalla diffusione, in quei Paesi, di giornali popolari sui cui contenuti non esprimo giudizi di valore, ma che trovano nel nostro Paese i loro omologhi in alcuni giornali periodici e, più di recente, nella “free-press”. Se passiamo, invece, ai prodotti confrontabili, vediamo che i giornali italiani di qualità hanno diffusioni superiori a quelle di quei Paesi ai quali guardiamo sempre con ammirazione ed invidia e che la stampa locale – regionale e provinciale – ha indici di penetrazione pienamente confrontabili con quelli degli altri Paesi. I primi quotidiani italiani sono anche quotidiani di qualità e vendono più copie dei loro omologhi stranieri.

In definitiva è vero che in Italia si vendono meno quotidiani rispetto agli altri Paesi, ma è anche vero che se il confronto non si fa per tipologia – quotidiani o periodici – ma per contenuti, si constata che le differenze si attenuano e in alcuni casi si invertono a nostro favore e ciò sia nel campo dei quotidiani che dei periodici.

Parlando poi dei periodici, salta agli occhi la ricchezza dell’offerta editoriale, con prodotti di massa e di nicchia, a volte di nicchie iperspecialistiche nelle quali decine di pubblicazioni si contendono il pubblico dei potenziali lettori. Il turn-over di questo settore è sicuramente elevato, e mi sembra un fattore altamente positivo che il sistema riesca ad assicurare un continuo ricambio ed una continua sostituzione di prodotti nuovi a prodotti superati.

Altra notazione da fare è quella che – per tutta una serie di caratteristiche sociali del nostro Paese – ad indici di diffusione bassa corrispondono, però, indici di lettura molto alti, il che fra l’altro consente di far uscire il Sud da quel presunto livello terzomondista nel quale gli indici di vendita sembrerebbero sprofondarlo.

Malgrado le precisazioni che consentono di ridimensionare il pessimismo che spesso assale quando si fanno confronti tra le diffusioni complessive, non c’è dubbio, però, che quello dell’allargamento della diffusione resti il tema centrale della nostra attività sia come imprese sia come Federazione degli Editori. Il livello di 7 milioni di copie vendute di quotidiani che avevamo raggiunto nel ’90 è un livello possibile e quindi è un obiettivo concreto al quale abbiamo il dovere di puntare. E anche per i periodici abbiamo il dovere di puntare al miglioramento delle “performances” già positive che il settore registra.

Per parte nostro faremo ogni sforzo in tale direzione, ma la nostra volontà e la nostra iniziativa, da sole, non bastano.

Innanzitutto dobbiamo tenere presente che siamo nel pieno di una congiuntura negativa, per effetto della flessione degli investimenti pubblicitari. Per i quotidiani il 2001 si è chiuso con una riduzione complessiva del fatturato pubblicitario del 6,1%. In questa prima parte del 2002 le indicazioni sono ancor più negative con una flessione che a gennaio viene stimata nell’ordine del 10%. I periodici sono andati meglio mettendo a segno nel 2001 un risultato positivo del 2,6%. Però, anche per i periodici, gli ultimi due mesi dell’anno sono stati molto pesanti con due consecutive flessioni ed anche l’inizio del 2002 si è presentato con un calo piuttosto pronunciato. Alcuni analisti prevedono l’avvio di segnali di ripresa in primavera. Si tratta pur sempre di previsioni e, comunque, a fine anno, nella migliore delle ipotesi, la crescita per la stampa nel suo complesso non si discosterà dallo zero.

A livello di Paese è ormai evidente che il problema da fronteggiare – e non solo in Italia – è quello del calo dei consumi che incide sugli indici fondamentali dello sviluppo: occupazione, reddito, prodotto interno lordo. Il calo della pubblicità è il sintomo più evidente di questa situazione, ma, a sua volta, esso diventa causa di un’ulteriore contrazione della domanda. Per interrompere questo circolo vizioso – meno domanda, meno investimenti pubblicitari, meno domanda – avevamo proposto una misura di incentivazione, attraverso un beneficio fiscale, dell’investimento pubblicitario su tutti i mezzi e ciò sulla base di due considerazioni: quella che l’investimento pubblicitario è un investimento a tutti gli effetti e tale deve essere considerato anche sotto il profilo fiscale; quella che uno strumento del genere avrebbe avuto positive ricadute non solo sulle imprese, ma sul sistema Paese. Dirette beneficiarie di quella misura sarebbero state le imprese produttrici di beni e servizi che avrebbero avuto un beneficio fiscale dal mantenimento di certi livelli di investimenti pubblicitari, beneficiari indiretti sarebbero stati i media, tutti i media.

Il Governo non ha ritenuto di poter accogliere quella proposta e possiamo certo capire come le preoccupazioni per l’equilibrio di bilancio fossero più che fondate. Il problema, però, è ancora aperto e dubito – come alcuni segnali di questi giorni confermano – che, in assenza di decisi interventi di contrasto, possa risolversi rapidamente e spontaneamente. Ci permettiamo, quindi, di attirare nuovamente l’attenzione del Governo sulla nostra proposta che riteniamo possa avere un effetto positivo sotto molti profili.

Intanto questa gelata pubblicitaria ha già avuto nel 2001 un effetto devastante sui nostri equilibri e lo avrà anche nel 2002. Le cifre di utili che ho prima citato con legittimo orgoglio quale sintomo del grande sforzo di rinnovamento del nostro settore, rischiano di essere compresse se non annullate da una così pesante flessione di un’entrata che rappresenta ormai più del 50 per cento dei ricavi tipici del nostro settore.

E bisogna ricordare – tornando al tema della diffusione – che, se è vero che si ha più pubblicità se si vendono più copie, è anche vero che si vendono più copie se si ha più pubblicità. Gli investimenti di sostegno della diffusione sono, infatti, possibili solo se il livello delle entrate li consente. Il calo della pubblicità potrebbe quindi innescare un pericoloso circolo vizioso che riporterebbe il nostro settore indietro di anni. Da questo stesso ordine di problemi è stata provocata la decisione di aumentare il prezzo di copertina dei giornali; decisione dolorosa, perché in contrasto con l’obiettivo di espandere la diffusione, ma assolutamente necessaria e improrogabile e dobbiamo dare atto al Governo di avere compreso, con la norma sull’Iva approvata con la Finanziaria per il 2002, il carattere di necessità che essa rivestiva e di aver accettato di rinunciare all’incremento di entrate che, in assenza di quel provvedimento, sarebbe derivato per il fisco.

Il problema degli investimenti pubblicitari è – ripeto – di importanza capitale per l’equilibrio del nostro settore ed esso solleva un’altra questione, che è quella della competizione tra i mezzi. Ho già detto e voglio ripetere qui che non è mia intenzione rinverdire vecchie polemiche con la televisione, con la quale vogliamo competere a viso aperto e, come ho ripetuto più volte, sforzarci di fare sistema. Questa competizione e questa collaborazione impongono, però, che siano meglio precisate le regole del gioco. Esistono incongruenze e oscurità normative che consentono, di fatto, un’espansione della pubblicità televisiva sulle reti pubbliche e su quelle private al di là dei limiti qualitativi e quantitativi che dovrebbero essere rispettati e che consentirebbero quella competizione leale alla quale ho prima accennato e che ho ferma intenzione di promuovere in ogni modo. Al Governo e all’Autorità di settore chiediamo con fermezza di intervenire in questo settore per eliminare le zone d’ombra di una disciplina che deve rappresentare la regola del gioco della competizione tra i mezzi e in mancanza della quale è inevitabile che la competizione diventi impari.

Sempre sul tema della pubblicità chiediamo al Governo e al Parlamento una maggiore attenzione per la comunicazione pubblica, con l’obiettivo di aumentare la trasparenza della gestione e della cosa pubblica e di fornire una corretta informazione ai cittadini su quello che lo Stato fa e su quello che essi devono fare. Se vogliamo uno Stato moderno ed efficiente occorre che la pubblica amministrazione ricorra, molto di più di quanto non faccia attualmente, a campagne di comunicazione, realizzate alla luce del sole, come avviene negli altri Paesi nei quali l’operatore pubblico figura tra i più importanti investitori pubblicitari.

In questo quadro abbiamo chiesto al Ministro Lunardi e ottenuto di farsi promotore di una norma che renda effettivi gli obblighi di comunicazione sulla delicatissima materia delle gare e degli appalti e che sono rimasti, in gran parte, lettera morta perché non assistiti da adeguate sanzioni. Analogo sforzo dovrà essere fatto per rendere effettivo l’obbligo della pubblicazione dei bilanci degli enti locali e, più in generale, per promuovere all’interno della pubblica amministrazione quella cultura della comunicazione che è propria delle strutture private e che, diciamolo francamente, è stata sinora carente, come dimostrano le iniziative molto episodiche e molto marginali che sono state assunte. Gli sforzi che il Ministro della Funzione Pubblica Frattini sta compiendo in tale direzione ci trovano più che concordi e ci siamo impegnati a dare tutta la nostra collaborazione perché essi giungano a risultati concreti, e perché, attraverso tale via, si alzi il livello di modernità del Paese e della pubblica amministrazione.

Passando all’altra fondamentale entrata della stampa, che è quella derivante dalla vendita delle pubblicazioni, ribadiamo che è nostra intenzione mettere in atto tutti gli strumenti necessari all’incremento della diffusione.

In questo ambito esistono due snodi fondamentali. Quello dei punti di vendita e quello del sistema di consegna delle copie in abbonamento. Per quanto riguarda il primo deve essere chiaro – e voglio confermarlo ancora una volta – che l’edicola è e resterà nel nostro Paese la struttura portante della nostra diffusione. Si tratta, ovviamente, di migliorarla ed ammodernarla rendendola uno strumento attivo di promozione, ma i timori – sempre riaffioranti – degli edicolanti di una sua marginalizzazione sono, per quanto ci riguarda, del tutto infondati. Le vendite in posti diversi – supermercati, bar, librerie, tabaccherie – che solo da poco, finalmente e con mille limitazioni, abbiamo avuto il diritto di praticare, sono vendite integrative e non sostitutive e l’esperienza fatta in questo primo periodo ci ha confermato che la vendita dei giornali in questi nuovi punti determina un ritorno positivo per le stesse edicole: si creano nuovi lettori che poi sono indotti ad andare in edicola per cercare le pubblicazioni.

Quanto alla consegna degli abbonamenti, pur riconoscendo che qualche miglioramento c’è stato, siamo ancora lontani da quel livello di efficienza che sarebbe necessario per riportare la percentuale degli abbonamenti della stampa italiana non dico al livello degli altri Paesi europei, dove superano abbondantemente il 50 per cento della diffusione, ma almeno a livelli meno marginali di quelli che attualmente registriamo.

Sul problema delle tariffe postali occorre che il Governo prenda atto che sotto il nome di stampa e stampati si veicolano prodotti che solo in minima parte sono prodotti informativi. Non possiamo considerare tariffe per la stampa, le tariffe che vengono praticate per la spedizione di pubblicazioni che nessuno ha chiesto, per le quali nessuno ha pagato e che sono spesso diffuse più nell’interesse di chi le fa che di chi le riceve.

Sempre sul piano dell’incremento della diffusione vogliamo agire in modo più coordinato perché il giornale venga utilizzato nelle scuole quale strumento didattico, in modo da promuovere nei giovani un gusto ed un’attitudine alla lettura superiore a quella dei loro padri e dei loro nonni.

Siamo pronti ad aprire un confronto con il Ministero per individuare gli strumenti concreti dell’utilizzo del giornale nella scuola e speriamo vivamente che anche da parte del Ministero e dei docenti si colga come tale utilizzo rappresenti uno strumento insostituibile per educare i giovani al civile confronto delle opinioni e delle idee e perché meglio comprendano i problemi e le caratteristiche del mondo nel quale dovranno vivere la loro vita.

Sul piano dei costi un cenno particolare merita quello del lavoro che, per un’industria ad altissimo valore aggiunto quale è quella editoriale, rappresenta il costo fondamentale.

La situazione sindacale nei giornali registra una normalità di svolgimento dei rapporti con le organizzazioni dei lavoratori al livello nazionale con le quali il confronto è costante e costruttivo.

Vorrei sottolineare come si tratti di una consolidata tradizione di dialogo che ha sempre caratterizzato i rapporti tra il mondo editoriale ed il mondo sindacale e che è basato sul profondo, reciproco rispetto dei loro ruoli e sulla completa condivisione degli obiettivi di fondo di sviluppo del settore.

Credo che questa capacità di dialogo, che non si è interrotta nemmeno nei momenti di più grave tensione che pure si sono registrati, rappresenta un patrimonio di grande valore che cercheremo di mantenere ed accrescere, soprattutto in un momento come l’attuale, nel quale sembra invece prevalere, nel Paese, un clima di litigiosità e di radicale contrapposizione che, oggettivamente, appare eccessivo e, certo, non utile ai fini della risoluzione dei gravi problemi che dobbiamo fronteggiare.

Conclusa nel 2001 la stagione dei rinnovi contrattuali - economico e normativo quadriennale dei giornalisti e economico biennale dei poligrafici – l’applicazione delle nuove normative non ha dato luogo a particolari difficoltà interpretative od esecutive, essendosi le componenti aziendali rapidamente adeguate alle innovazioni e modifiche introdotte.

Dalle aziende provengono, tuttavia, segnali di tensione per i riflessi che la negativa contingenza economica determina sull’equilibrio dei bilanci con la conseguente necessità di contenere i costi di produzione con particolare riferimento a quelli del lavoro.

E’ da rilevare in tale quadro che sono già numerosi i casi di ricorso agli interventi di sostegno del Fondo per la mobilità e riqualificazione professionale dei giornalisti previsto dall’art. 15 della nuova legge dell’editoria e gestito dalla Presidenza del Consiglio e che, pertanto, una rapida entrata in funzione di tale strumento consentirebbe di ammortizzare gli impatti delle ristrutturazioni.

Per quanto concerne la legislazione del lavoro la Fieg ha espresso il proprio parere e formulato le proprie proposte sui disegni di legge di delega in materia previdenziale e del mercato del lavoro.

Una particolare attenzione deve essere riservata al problema dei rapporti con l’Inpgi che tende ad attuare un’esasperata difesa della propria autonomia gestionale e funzionale, sottraendosi anche all’applicazione di norme di interesse generale.

Proporremo alla Federazione della stampa l’apertura di un tavolo per l’esame di tutti i problemi di comune interesse relativi all’Inpgi e in particolare all’equilibrio economico gestionale dell’Istituto nel rapporto tra costi ed entrate ed ai provvedimenti che potranno risultare utili per tale finalità, nonché al riesame del livello di rappresentatività degli editori nel Consiglio di amministrazione che dovrebbe riflettere la comune responsabilità che la legge di privatizzazione impone alle parti sociali per la gestione contrattuale degli aspetti contributivi e delle prestazioni pensionistiche essenziali per la vita dell’Istituto.

Prima di concludere, credo doveroso dare atto al Governo di dimostrare quotidianamente una grande sensibilità per i problemi della carta stampata. Il colloquio continuativo che abbiamo con i membri del Governo e soprattutto con i Sottosegretari Letta e Bonaiuti ha consentito di risolvere molti problemi.

Malgrado il loro impegno e la loro sensibilità si registrano, però, ritardi assolutamente inspiegabili, quali quelli nell’adozione dei regolamenti di applicazione della nuova legge dell’editoria che, a distanza di un anno dalla sua approvazione – avvenuta con il consenso di tutte le forze politiche presenti in Parlamento – è, in gran parte, inoperante appunto per la mancanza delle norme regolamentari previste dalla legge.

Che per adottare i regolamenti di applicazione ci voglia più tempo che per approvare una legge è, sinceramente, sconcertante.

Ed è ovvio che il ritardo nell’applicazione della legge si traduce – a parità di costo per lo Stato - in una riduzione della sua efficacia.

Molti altri temi dovrebbero essere affrontati, ma preferisco lasciare spazio e tempo all’intervento del Presidente del Consiglio che ci ha fatto l’onore di partecipare alla nostra assemblea.

Prima di chiudere consentitemi, però, di affermare con forza come l’editoria italiana si presenti oggi come un settore moderno, pluralista, profondamente radicato nella cultura della competizione e del mercato.

Moderno. Il livello tecnologico dei nostri impianti non ha nulla da invidiare a quello dei Paesi più avanzati d’Europa e del mondo. L’utilizzo delle nuove tecnologie è generale e anche la presenza nelle nuove forme di comunicazione è estremamente diffusa.

Pluralista. Il panorama della stampa italiana è il più variegato che si possa immaginare. Sia dal punto di vista degli indici di concentrazione che sono tra i più bassi di Europa, sia dal punto di vista della varietà degli indirizzi editoriali, la nostra editoria giornalistica ha certamente realizzato gli obiettivi di libertà di opinione che sono sanciti dalla nostra Carta Costituzionale e che sono stati riaffermati come fondamentali dalle sentenze della Corte e sono stati richiamati, anche di recente, per il loro essenziale valore di presidio di libertà, dal Presidente della Repubblica, al quale questa assemblea invia un saluto deferente e cordiale.

Radicato nella cultura di mercato. Ho all’inizio ricordato con orgoglio e soddisfazione i risultati economici raggiunti dal settore editoriale. Come dicevo in apertura, quei risultati non sono solo indici di salute economica, ma dimostrano che è stata ripristinata la libertà di ingresso e di crescita nel nostro settore, libertà che vediamo di fatto esercitata da nuovi operatori, da piccoli editori che, coraggiosamente, si espandono, da grandi editori che allargano il loro mercato ed entrano in nuove aree di attività.

E a questo proposito consentitemi, per una volta, di ribaltare il vezzo di considerare gli altri Paesi migliori del nostro. Si guardi al caso della stampa gratuita che in questi giorni subisce in Francia un boicottaggio feroce da parte di operai, giornalisti, editori e giornalai, che giunge fino alla distruzione delle copie e al blocco degli impianti di stampa.

In Italia, di fronte all’identico problema, gli editori si sono rimboccati le maniche e hanno occupato uno spazio che altrimenti rischiava di essere monopolizzato da altri. Si veda il caso di Internet, dove gli editori italiani si sono lanciati con coraggio malgrado l’altissima àlea che il nuovo sistema comportava e comporta.

Anche nel nuovo sistema della trasmissione digitale terrestre gli editori italiani sapranno fare la loro parte di fornitori di contenuti, se sarà approntato un quadro di garanzie che consenta l’utilizzazione della loro esperienza e del loro know-how. E questo è il senso della posizione che abbiamo assunto nei riguardi dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e nei confronti del Ministero delle comunicazioni.

Credo che bisogna darci atto di praticare, nei fatti, un rispetto del mercato e della concorrenza che è un’altra faccia, e non la meno importante, del pluralismo.

Il rispetto delle regole del mercato al quale noi ci siamo richiamati impone anche una revisione della ormai troppo datata legge “Mammì” nella parte in cui vieta gli incroci tra carta stampata e televisione, anche per evitare che quei limiti difettino di reciprocità nel senso che siano più severi per la carta stampata che per la televisione.

Signor Presidente del Consiglio, Signori Ministri, Signori esponenti del Parlamento, Autorità, il settore con il quale oggi Vi incontrate è un settore che non chiede favori: è un settore che chiede rispetto per ciò che ha saputo fare e per ciò che rappresenta nel Paese e che spera solo di non essere ostacolato nelle tante cose che ancora deve e vuole fare, con l’obiettivo di garantire al nostro Paese quella stampa di qualità che esso merita e – ci si consenta la presunzione – della quale ha bisogno.


  
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