DDL GASPARRI: AUDIZIONE FIEG
AUDIZIONE VII COMMISSIONE (CULTURA
E IX COMMISSIONE (TRASPORTI)
CAMERA DEI DEPUTATI
ROMA, 10 SETTEMBRE 2003
Sintesi delle osservazioni Fieg
in merito al disegno
di legge C. 310 ed abb.-B
Alla situazione di sostanziale duopolio nel settore televisivo – che non sembra destinata ad essere intaccata dal nuovo disegno di legge – corrisponde nel campo dell’editoria giornalistica una situazione di grande concorrenza. Nel settore della stampa quotidiana, in particolare, il 50% della diffusione totale è assicurato da 6 testate. Negli altri paesi europei la stessa percentuale della diffusione complessiva è assicurata da un minor numero di testate e di editori.
Anche nel settore della stampa periodica la diffusione complessiva è assicurata da un altissimo numero di testate e non esistono, praticamente, situazioni di dominanza di testate o di gruppi.
La situazione di grande concorrenzialità sul piano della diffusione ha una corrispondenza diretta sul piano dei contenuti: all’interno della stampa italiana si registrano una varietà di posizioni e una vivacità di contrapposizioni sicuramente superiori a quelle di molti altri paesi europei.
La difesa di questo patrimonio di pluralismo deve essere – come il Presidente della Repubblica ha ricordato – un compito fondamentale dello Stato.
In Italia, già oggi si registra uno squilibrio tra la televisione e la carta stampata nell’acquisizione delle risorse non riscontrabile negli altri Paesi europei: la televisione italiana assorbe il 53,3 per cento delle risorse pubblicitarie contro il 29 per cento della media europea. La carta stampata assorbe in Italia il 37% per cento degli investimenti complessivi contro il 55% della media europea.
La minore diffusione dei giornali italiani rispetto a quella degli altri paesi europei non fornisce una spiegazione sufficiente a tale divario. Innanzitutto perché i livelli di lettura dei giornali italiani sono molto elevati: 20 milioni di lettori per i quotidiani e 34 milioni di lettori per i periodici, dovrebbero rendere la stampa italiana un mezzo altamente competitivo anche sul piano pubblicitario, con uno “share” di assorbimento degli investimenti complessivi nettamente superiore all’attuale. In secondo luogo la insufficienza della diffusione quale causa della minore quota di pubblicità è contraddetta dal fatto che singole testate con una diffusione superiore a quella dei corrispondenti giornali di altri paesi europei hanno un ricavo pubblicitario inferiore a quello degli omologhi stranieri.
Le cause fondamentali dello squilibrio sono, quindi, da ricercare altrove e più esattamente nella storia della televisione italiana che non è certo qui il caso di ripercorrere ma che, in estrema sintesi, è stata caratterizzata dal costante anticipo del fatto rispetto al diritto, della crescita spontanea – e spesso impetuosa – rispetto alla sua disciplina giuridica. Sperare che questo squilibrio possa essere sanato dalla legge che è oggi in discussione sarebbe utopia, ma crediamo di avere il diritto di chiedere che questo squilibrio non venga aggravato.
Entrando nel merito del disegno di legge, diciamo subito che riteniamo che esso possa costituire una grande occasione per dare regole certe al sistema complessivo della comunicazione, saltando gli steccati delle discipline settoriali. In tale ambito l’eliminazione del divieto di “crossing ownership” tra televisione e carta stampata è, sicuramente, condivisibile, in via di principio. Fino a quando, però, sarà operante la duopolizzazione dell’emittenza televisiva nazionale, l’abbattimento delle barriere tra televisione e carta stampata rischia di determinare esclusivamente una maggiore possibilità di intervento degli operatori televisivi nel settore della carta stampata piuttosto che il contrario. La “asimmetria” tra operatori televisivi e editori di giornali stabilita fino al 31 dicembre 2008 è sicuramente un fatto positivo, ma la sua durata appare eccessivamente limitata, in relazione alle reali possibilità di creare, entro quella data, un sistema televisivo caratterizzato da un grado di pluralismo superiore all’attuale.
Altrettanto positivamente è da giudicare il fatto che la determinazione delle soglie di concentrazione lecite nel “sistema integrato delle comunicazioni” vengano calcolate in base alle risorse, piuttosto che in termini di detenzione di singoli strumenti di comunicazione. Perché tale sistema sia efficace occorre, però, che le risorse sulle quali calcolare la percentuale consentita ad ogni operatore siano:
- rilevanti ai fini della costituzione di posizioni dominanti nel settore integrato delle comunicazioni;
- esattamente determinabili nella loro quantità in modo da evitare che il superamento o meno delle soglie consentite sia lasciato a stime necessariamente opinabili.
Tali risorse dovrebbero, pertanto, essere quelle derivanti dalla pubblicità, dalle televendite, dal finanziamento pubblico alla concessionaria radiotelevisiva, dai pagamenti effettuati alle televisioni a pagamento per la ricezione dei programmi, dalla vendita, in edicola o in abbonamento, di giornali quotidiani e periodici.
Il testo del disegno di legge approvato dal Senato appare sotto questo profilo estremamente impreciso sia perché nelle risorse complessive del settore integrato delle comunicazioni sono inserite voci non rilevanti ai fini della costituzione di una posizione dominante, sia perché le voci stesse appaiono difficilmente quantificabili nella loro entità. In particolare sembra che possono concorrere a formare l’ammontare complessivo delle risorse gli investimenti di enti e imprese in attività diverse dalla pubblicità finalizzati alla promozione di propri prodotti o servizi. La dizione è talmente ampia da comprendere tutte le spese di tutte le imprese – di qualunque settore – dirette alla promozione di prodotti di qualunque tipo. Non si riesce a comprendere quale riflesso abbia sul livello di concentrazione degli operatori della comunicazione, la decisione di altre imprese di investire in attività promozionali utilizzando tutti i canali del marketing. Parimenti incomprensibile è come tali investimenti possono diventare “ricavi” dei soggetti del sistema della comunicazione.
Anche la soluzione scelta per l’assetto della concessionaria pubblica appare assolutamente inadeguata. Le scelte teoricamente possibili sembrano, infatti, essere solo due:
- privatizzazione della Rai o di una parte delle sue reti
- maggiore pubblicizzazione della Rai in modo da evitare che essa operi come un soggetto privato finanziato dallo Stato attraverso il canone.
La scelta operata, invece, sembra diretta a mantenere la Rai in un ambito pubblico con il privilegio del finanziamento pubblico, ma senza gli oneri che ad esso dovrebbero essere collegati.
Qualora, come sembra, lo Stato non intenda rinunciare – in tutto o in parte – ad un servizio pubblico radiotelevisivo, occorre trarne le conseguenze necessarie anche in termini di vincoli di tale servizio. Ci si riferisce innanzitutto ai vincoli in materia di raccolta pubblicitaria che devono essere resi più severi e più efficaci proprio in conseguenza sia delle risorse pubbliche garantite alla Rai sia della natura di servizio pubblico che quelle risorse determinano. Un meccanismo di adeguamento automatico del canone della Rai è non solo possibile ma auspicabile alla condizione che esso sia accompagnato da una riduzione del carico pubblicitario della Rai, che consenta di liberare risorse per gli altri operatori del mercato della comunicazione e innanzitutto della carta stampata. A tal fine sarebbe, innanzitutto, auspicabile ripristinare il principio che le entrate pubblicitarie della concessionaria pubblica debbano rappresentare un provento accessorio rispetto a quelle connesse al canone ed introdurre, quantomeno a livello programmatico, la possibilità di utilizzare lo strumento del canone per ridurre la dipendenza della concessionaria pubblica dal mercato pubblicitario e rafforzare, così, il suo ruolo di servizio pubblico.
In questo quadro desta preoccupazione la ventilata applicazione del federalismo regionale alla Rai. Se tale federalismo dovesse riguardare esclusivamente i contenuti, gli editori di giornali non avrebbero, ovviamente, alcuna osservazione da formulare. Ma se tale federalismo dovesse anche riguardare le risorse, se cioè fosse consentito alle articolazioni regionali del servizio pubblico di raccogliere pubblicità locale, si realizzerebbe un’ulteriore minaccia alla carta stampata, in particolare a quell’editoria locale che oggi sopravvive solo grazie a tale pubblicità. Non si tratterebbe, quindi, di un mutamento di poco conto, ma di un cambiamento capace di incidere su quel pluralismo che il Presidente della Repubblica ha ripetutamente sottolineato come una delle caratteristiche fondamentali ed irrinunciabili della libertà di informazione.
Parlare di assetto globale del sistema delle comunicazioni senza parlare di regole nella raccolta pubblicitaria sarebbe ipocrita. La pubblicità è la risorsa comune a tutti i mezzi che garantisce a tutti i mezzi di convivere e di confrontarsi. Le regole in materia di raccolta pubblicitaria sono, pertanto, fondamentali per il mantenimento dell’equilibrio tra le diverse componenti del sistema della comunicazione. In questo settore occorre, purtroppo, rilevare come le regole in materia di affollamento pubblicitario televisivo siano, in Italia, estremamente permissive e applicate in modo ancor più permissivo. Si veda, ad esempio, il caso delle cosiddette “telepromozioni” che, senza alcuna motivazione logica e giuridica, non vengono inserite nelle limitazioni orarie degli spot. Il Consiglio di Stato, su richiesta dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ha per ben due volte chiarito che, invece, tali forme di pubblicità devono essere conteggiate all’interno dei limiti orari della pubblicità. Malgrado tale presa di posizione e malgrado le sanzioni che l’Autorità delle Comunicazioni ha annunciato di aver inflitto, la situazione non è praticamene cambiata. Nell’ambito di ogni ora, vengono trasmessi gli spot nei limiti consentiti dalla legge e in aggiunta vengono trasmesse telepromozioni realizzate dagli stessi presentatori, contraddicendo - tra l’altro - quel principio fondamentale, che dovrebbe presiedere a tutta la pubblicità, che è quello della sua netta separazione dai contenuti e che ha indotto paesi come la Francia e l’Inghilterra a vietare del tutto le “telepromozioni” così come vengono trasmesse in Italia. In tale situazione, sarebbe lecito attendersi che il legislatore eliminasse ogni dubbio nella normativa e stabilisse chiaramente che le “telepromozioni” vanno imputate ai “tetti” giornalieri ed orari della pubblicità. Il Senato ha, invece, seguito la direzione esattamente opposta. Invece di rafforzare l’interpretazione del Consiglio di Stato, rendendola esplicita e assistendola con adeguate sanzioni, ha stabilito esplicitamente che le “telepromozioni” non sono imputabili ai limiti orari. Ha, quindi, praticamente introdotto un “condono” delle violazioni già commesse e, quel che è più grave, ha stabilito per il futuro che esse non costituiranno più violazioni di legge. La normativa europea, che viene invocata a sostegno di tale norma, non obbliga affatto ad adottare tale soluzione, ma si limita a consentirla ad altri grandi Paesi europei che hanno, infatti, adottato discipline molto più restrittive. La nostra richiesta è di modificare tale norma stabilendo che i limiti dell’affollamento pubblicitario – orari e giornalieri - si applicano a tutte le forme di pubblicità; solo così quei limiti hanno significato. Occorre osservare che tale soluzione è più favorevole per le emittenti di quella adottata in Francia e Inghilterra che hanno vietato del tutto le “telepromozioni” trasmesse con le modalita’ utilizzate in Italia.
In materia di “sforamenti” pubblicitari sia della concessionaria pubblica sia delle emittenti private potrebbero farsi numerosi altri esempi. La rigorosa fissazione dei limiti di affollamento e la altrettanto rigorosa attività di controllo sul loro rispetto è un nodo fondamentale della regolamentazione televisiva, se si vuole che tale regolamentazione sia - come deve essere - anche uno strumento diretto a garantire l’equilibrio e la coesistenza dei diversi mezzi di comunicazione.